Di Simone D’Alessandro
In tempi non sospetti, esattamente nel 1959, ci fu un intellettuale e divulgatore americano che mise in dubbio le regole canoniche della pubblicità, rifiutando gli enfatici postulati dell’hard selling[1] centrati sulla dittatura iperbolica delle elencazioni dei vantaggi e delle promesse difficili da mantenere. Bill Bernbach, coltissimo copywriter disallineato e fiero di non essere wasp[2], ebbe il coraggio di contrapporre alla costruzione di slogan da piazzisti, una via misurata (alcuni l’hanno definita negative approach, altri understatement style[3]) e, proprio per questo, vicina alle reali esigenze delle persone. Eppure, il suo tocco paradossalmente lieve ma inaspettatamente efficace, non ha generato molti emuli. Ancor oggi seprovaste a chiedere alla maggior parte di creativi o comunicatori di nuova generazione (molti dei quali si nascondono dietro le etichette, ignorando il fatto che per saper comunicare bisognerebbe innanzitutto “conoscere chi lo ha fatto prima e meglio di te”) chi era Bill Bernbach, non saprebbero cosa rispondervi.
Gli attempati ricordano superficialmente Ogilvy o Seguela. Gli pseudo-esperti citano la sempreverde Unique Selling Proposition di Reeves. I tv dipendenti liquidano in due parole Jerry della Femina, celebre copy degli anni ‘70, oggi noto solamente per aver ispirato la serie televisiva Mad Man con il suo libro: Da quei bravi ragazzi che si sono inventati Pearl Harbor – realisticadescrizionedeiretroscena delle agenzie pubblicitarie. I più chic citano a memoria uno o due aforismi di Leo Burnett. Solo gli autentici appassionati saprebbero distinguere lo stile di un Alastair Crompton da quello di un Macmanus – quest’ultimo, a suo modo, precursore dello stile soft e litotico di Bernbach. In altre parole, fatte salve le dovute eccezioni, quasi nessuno ricorda che una volta (in realtà, anche oggi ma solo in organizzazioni dove conta ancora la raffinatezza di pensiero) la pubblicità si articolava in correnti, scuole, strategie che dividevano politicamente oltre che esteticamente. Bernbach fu ribelle. Sconfessò il re nudo prima che fosse evidente a tutti, mostrando una via d’uscita dagli eccessi. Fu lui a ideare (più di mezzo secolo fa) il celebre claim Think Small per il maggiolino della Volkswagen. Fu lui a inserire sotto una bottiglia vuota di whisky Chivas, l’headline: Vedila così. Non ci hai rimesso una bottiglia di Chivas. Hai guadagnato degli amici[4]. Fu ancora lui a essere scelto come testimonial della Apple recitando il noto Think Different.
In Bernbach c’è il rifiuto dell’esasperazione e dell’insistenza che rappresentano i due elementi tipici di uno stile propagandistico e antiumanistico in quanto considerano la persona una pedina da manipolare. In un’epoca fortemente abbacinata dal sogno americano e dal mito della crescita infinita, fu il primo a porre dei limiti. Fu antesignano di una “de-screscita degli status symbol”, di una ecologia della mente in barba a Latouche, Geourgescu-Roegen e Bateson.
Oggi è fin troppo scontato sostenere ciò che lui predicava e praticava il secolo scorso.
Bernbach si oppose alla dittatura della serialità. Mentre altri copywriter pretendevano di guidare le scelte d’acquisto mediante un unico argomento di vendita, Bernbach svicolava, sussurrandoti amabilmente. Se gli altri rendevano appetibile un prodotto mostrandolo come unico, Bill restituiva valori non strumentali ai Brand, favorendo processi di identificazione emotiva che poco o nulla avevano a che vedere con la supremazia della soddisfazione materiale. Le sue parole bussavano alla porta con levità, nella cortese speranza di essere accettate. Non è tutto. Per Bernbach «non si trattava più di credere in ciò che si vende ma di comunicare ciò in cui si crede[5]».
Questa affermazione anti-reclamistica ha anticipato il social marketing, la brand reputation, le provocazioni di Toscani e Benetton, il sarcasmo dei vinti della Vigorsol, l’efficace sfrontatezza respingente di Chiambretti che pubblicizza la Panda solo dopo aver invitato il pubblico a fare cose più interessanti. Le teorie, le pratiche e i pensieri di questo straordinario personaggio sono stati condensati in un libro che deve essere preso in considerazione non soltanto dai pubblicitari, ma da filosofi e sociologi della comunicazione: Bernbach Pubblicitario Umanista. La prima raccolta dei testi del più grande tra i mad man. Un libro curato da Giuseppe Mazza, già direttore creativo di Saatchi & Saatchi, collaboratore di Venerdì di Repubblica. Bernbach ci ricorda che l’uomo oltrepassa il principio di ragione, resistendo a ogni meccanico tentativo di essere persuaso. Per Bill essere convincenti significava richiamare valori credibili che oltrepassassero la falsa seduzione delle merci, lasciando all’uomo l’ultima parola in fatto di scelte. Se queste scelte fossero o meno d’acquisto, non era rilevante. Fondamentale era che fossero scelte consapevoli.
[1] L’hard selling, ovvero vendita “dura” e martellante: un tipo di pubblicità che reclamizza un prodotto senza molti orpelli stilistici evitando eccessive finezze intellettuali. Privilegia l’elencazione a volte esasperante dei vantaggi e dei contenuti a scapito degli aspetti estetici. Il capostipite di questa scuola di pensiero fu Claude Hopkins che nel suo libro Scientific Advertising (1923) propose una strategia belligerante nei confronti del potenziale cliente e consumatore. Negli anni ’40 questo sentiero venne migliorato e “ingentilito” da Rosser Reeves mediante la tecnica della Unique Selling Proposition (Unico argomento di vendita) di cui parleremo a seguire nell’articolo. Reeves descrive questa tecnica nel suo libro Reality in Advertising, divenuto oramai un classico del settore accanto a Confessioni di un Pubblicitario di Ogilvy oppure a How to write a good advertisement di Schwab.
[2] W.a.s.p.: acronimo che sta perWhite Anglo-Saxon Protestant (bianco, anglosassone e di religione protestante). Bernbach fu tra i primi “non wasp” ad affermarsi in questo settore e fu anche il primo a inserire nella sua agenzia (la DDB) persone provenienti da diverse estrazioni sociali, culturali, etniche e religiose.
[3] Understatement è un termine della lingua inglese. Lo potremmo definire per semplicità una sorta di “snobbismo alla rovescia”. In realtà, indica una figura retorica che consiste nello sminuire il peso o la gravità di un certo fatto oltre i limiti della verosimiglianza, in modo ironico o per creare un effetto di comicità che nasce dal paradosso.
[4] Look at it this way. You didn’t lose a bottle of Chivas; you gained a few friends.
[5] Si veda G. Mazza (a cura di), Bernbach Pubblicitario Umanista, Franco Angeli, Milano, 2014, p. 26.