Il processo creativo e la routine organizzativa

Di Simone D’Alessandro

Nel libro Amore come Passione, Niklas Luhmann definisce il sentimento amoroso una “normalissima improbabilità”. Tale definizione potrebbe riferirsi “felicemente” anche al processo creativo, inevitabile atto d’amore e di necessità: processo relazionale che determina la sopravvivenza dell’essere umano come persona. La creatività tiene in sé il vago (ambiguità potenziale di ogni segno manifestato dall’ambiente), accanto al determinato (capacità che ha l’uomo di interrompere l’interpretabilità di un segno, per prendere una decisione ordinatrice). L’anomalo e la prassi quotidiana vengono fusi. Il disordine viene ri-ordinato secondo un processo. L’improbabile diventa possibile e l’originale muta in banale, nel momento in cui viene accettato dalla collettività. La creatività è come l’uovo di Colombo: prima di conoscerla la idolatri, quando la penetri ne rimani deluso, dicendo: tutto qui?

Nelle odierne organizzazioni ad alta valenza innovativa, i processi creativi vengono proceduralizzati[1] in forma di tecniche.

Nel momento in cui si proceduralizzano, danno vita a fenomeni di routine. Le routine permettono la ricombinazione dei linguaggi specifici dei settori produttivi. Solo attraverso i paradossi ricorsivi delle abitudini si innescano, nei sistemi locali e globali, i cambiamenti di valori, prodotti e servizi.

L’abitudine creativa diventa lo standard del futuro, generando vantaggi competitivi ed economie di scala. Queste prime considerazioni sulle inevitabili abitudini creative sono il frutto di un percorso di ricerca sul tema che vanta oltre dieci anni di osservazioni partecipanti presso organizzazioni pubbliche, private e no-profit nelle quali si applicano (bene o male) tecniche di stimolazione dei processi creativi finalizzati ad accelerare processi di innovazione incrementale o radicale. Nel mio percorso di carriera, accademica e professionale, ho affrontato il tema in varie pubblicazioni (D’Alessandro, 2001a; 2008b; 2010a; 2010b; 2010c; 2013a; 2014b; 2015c, 2021a).

Sono partito, anni fa, dall’idea di ricostruire un dialogo sociologico della creatività nelle organizzazioni.

Nel farlo ho ibridato paradigmi: la sistemica di indirizzo luhmaniano, il costruttivismo radicale alla Von Foerster, la sociologia relazionale di Pierpaolo Donati, le idee di Sennett sull’uomo artigiano, le idee di Wittgenstein e di Searle sul linguaggio, le idee di Dummett e di Goedel sulla logica, quelle di Hofstadter sull’intelligenza artificiale.

Ho attinto ad oltre 600 opere tra saggi e articoli, individuando correnti di pensiero di studiosi che hanno trattato il tema, con particolare riferimento ai seguenti ambiti disciplinari: sociologia dei processi culturali e comunicativi, sociologia della conoscenza, sociologia dell’organizzazione, sociologia dell’arte, scienze cognitive, psicologia sociale e cognitiva, antropologia culturale, neuroscienze, semiotica, storia della scienza, teorie e tecniche del linguaggio pubblicitario.

Allo stesso tempo mi sono calato, per anni, in osservazione partecipante visitando: a) agenzie di comunicazione; b) società di consulenza specializzate in marketing e innovazione d’impresa; c) società specializzate nella realizzazione di audiovisivi; d) istituti di formazione e università; e) aziende vitivinicole che fanno ricerca e sviluppo nel settore della vinificazione e dell’agricoltura biologica; f) associazioni culturali; g) associazioni di categoria; h) case editrici; i) centri media; l) redazioni di giornali; m) multinazionali; n) centri di ricerca e fondazioni private.

In gran parte di queste realtà sono stato intervistatore; in altri casi ho partecipato a riunioni finalizzate all’induzione della creatività, mediante l’utilizzo di tecniche (ho sperimentato in gruppo il thought shower o brainstorming, il walt disney method, il debriefing, le associazioni di idee, il reverse engineering, le tecniche di pnl, la focalizzazione ecc.).

Gli intervistati prescelti sono stati selezionati in base ai seguenti criteri: importanza del ruolo ricoperto; coerenza del curriculum professionale rispetto all’oggetto della ricerca; valenza creativa dell’organizzazione in cui l’intervistato opera. Nel corso degli anni ho somministrato numerose interviste allo scopo di comprendere le differenti interpretazioni inerenti al processo creativo e i suoi rapporti con le seguenti polarità concettuali: singolo/gruppo; razionale/irrazionale; autonomia/procedura; innovazione incrementale/innovazione radicale; cambiamento/abitudine.

La presente monografia rappresenta un passo in avanti ulteriore, un aggiornamento e una conferma di alcune ipotesi di ricerca sviluppate in precedenza.

Ogni definizione di creatività si presta a facili controdeduzioni

Un pubblicitario americano, Barry Day, diceva: «prova a chiedere una definizione di creatività e ti ritroverai con tante opinioni quanti sono gli individui». Edison affermava che la creatività è: «1% di genio e 99% di sudore». Einstein sosteneva che: «il segreto della creatività consiste nel saper nascondere le proprie fonti». Poincarè considerava creativo tutto quello che fosse in grado di portare “novità e utilità” al tempo stesso.

Quando proviamo a dare una definizione di questa parola, esplodono altre parole che negano le precedenti: per molti studiosi la creatività dipende dalla disciplina, per altri dalla libertà; per alcuni dipende da un sentiero già tracciato, per altri da un sentiero inventato. Per alcuni è scolarizzabile, per altri estranea a qualsiasi logica didattica. In realtà, alla base di ogni processo creativo applicato in organizzazione, esistono regole (e sopratutto meta-regole) che guidano i sentieri dell’innovazione.

Dal mio punto di osservazione, la definizione più calzante del termine deve essere al tempo stesso paradossale, generativa e ricorsiva: “un insieme di meta-regole in grado di disattivare se stesse, pur di raggiungere uno scopo”. Un corpus di regole dove esiste una grund-norm che afferma: cambia regola! Creatività è la capacità di cambiare sentiero, nella consapevolezza che non esiste un “non-sentiero”. È l’attitudine al superamento di regole note, pur sapendo che nel momento in cui le regole vengono oltrepassate, in realtà si stanno creando altre regole, inventando nuove categorie di senso. La creatività è una “relazione emergente” tra causalità e casualità, un dialogo ininterrotto tra soluzione, problema e contesto di riferimento.

Opposizione, combinazione, separazione: le regole inevitabili

Nel 2010, con il Libro Creatività: normalissima improbabilità? Per un dialogo sociologico tra problema e soluzione, ho lanciato una provocazione: la creatività è normalmente inevitabile, un fenomeno evolutivo del vivente. Il fenomeno si appoggia a schemi, abitudini che possono essere guidati da un innesco banale, convenzionale o frutto di una conoscenza tacita. Ciò raffredderà gli animi di coloro che nascondono le proprie abilità dietro l’aura magica del “mistero ineffabile del genio”. In tutte le organizzazioni da me osservate esistono tecniche che innescano routine nella gestione della creatività. Dal 1999 al 2015 ho censito 200 tecniche, ognuna delle quali presenta elementi ricorrenti nelle altre: regole comuni dell’opposizione, della combinazione e della separazione.

Tali meta-regole determinano il comportamento creativo e sono innescate dal rapporto circolare e ricorsivo tra pensiero e linguaggio.

Ovviamente, ciò non basta a spiegare il fenomeno: è impossibile accantonare dal processo la dimensione ambientale, la biografia del creativo (scopritore, inventore, artista, manager, consulente, scrittore), la stratificazione delle conoscenze pregresse, l’organizzazione con cui ci si relaziona abitualmente, i fattori casuali che innescano un nuovo modo di procedere e, infine, la manualità. Sta di fatto, però, che la governance del processo creativo è figlia di un uso ragionevole e cibernetico di regole. Lo stallo creativo si produce nelle organizzazioni che non favoriscono una didattica della creatività. L’umanità non ha bisogno del genio irrazionale e solitario (che non esiste in senso assoluto, poiché percepito geniale o normale, in base al contesto culturale e psicologico di riferimento), ma di una socialità geniale o, meglio, di una ‘genialità sociale’, che generi talenti stimolando le doti di ognuno in modo sistematico e condiviso, oserei dire in modo relazionalmente-sistemico.

Talento, Tecnologia e Tolleranza? Un circolo vizioso da evitare

Stando alle mie indagini, “Talento, Tecnologia e Tolleranza sociale” non determinano un incremento di creatività e, conseguentemente, d’innovazione. Un ambiente cosmopolita e ricco di risorse non favorisce la creatività più di un ambiente provinciale e povero. Si può parlare di sentieri creativi differenti: esistono luoghi in cui è possibile elaborare analiticamente e luoghi in cui ideare sinteticamente. Luoghi in cui si realizza a partire dall’eccesso e luoghi in cui si costruisce a partire dalla mancanza.

Il Giappone, per decenni, ha guidato l’innovazione tecnologica, pur essendo caratterizzato da un sistema sociale molto tradizionale, un ambiente accademico e imprenditoriale non propriamente cosmopolita e una tolleranza sociale bassa nei confronti delle diversità culturali e dei gusti sessuali. La Finlandia vanta uno degli indici di innovazione più elevati al mondo, pur presentando livelli di cosmopolitismo ridotto rispetto ad altre nazioni europee ed extraeuropee.

Non è vero che attrarre più talenti creativi significa incrementare la ricchezza, sviluppare più tecnologia e realizzare più tolleranza, ma è vero che laddove c’è già molta ricchezza si determina più tolleranza a prescindere e la tecnologia si sviluppa più rapidamente: conseguentemente, più persone (anche creative) vengono sedotte dalle favorevoli condizioni di luoghi ricchi sopravvalutando le possibilità di ascesa e sottovalutando quelle di fallimento. Di conseguenza i talenti potenzialmente emergenti nei territori poveri vengono sistematicamente illusi da altre nazioni in cui i creativi già inseriti mantengono saldamente le regole del gioco; gli inseriti continuano indisturbati la costruzione della loro aristocrazia corporativa e privilegiata, organica al sistema dominante, mentre gli altri (salvo rare eccezioni) vivono di briciole, quando avrebbero potuto sviluppare molto di più restando nei luoghi (più poveri) d’appartenenza. Spesso alcuni territori tornano indietro perché numerosi soggetti di talento vengo sedotti e ingannati da altri territori. Una volta arrivati nei nuovi territori i neofiti non aggiungono valore, mentre hanno contribuito a impoverire i territori da cui sono fuggiti. Queste considerazioni (descritte in dettaglio nel capitoli a seguire) smentiscono le tesi di Florida[2] .

Le relazioni emergenti tra creatività e innovazione

«Il mutamento di uno stato di cose esistenti, al fine di introdurre qualcosa di nuovo»: questa è la definizione più diffusa e accettata del termine Innovazione. Ma una definizione quanto più è generica, tanto più pone problemi di interpretazione[3]. Se proviamo a decostruire il concetto da angolature differenti, dando un quadro ampio attraverso molteplici pennellate d’autore, possiamo restituire numerose sfumature alla relazione tra creatività e innovazione.

  • L’innovazione è un processo, frutto di una serie di passaggi fra loro interconnessi. Everett Rogers (Rogers, 2003) suddivide in sei fasi il processo innovativo: a. Individuazione di un bisogno o di un problema che richiede una soluzione; b. Decisione di fare delle ricerche per risolvere la questione; c. Sviluppo della nuova soluzione in modo da dare forma e contenuto per chi dovrà usarla; d. Produzione e distribuzione del prodotto o servizio che contiene l’innovazione; e. Conseguenze determinate dall’introduzione della nuova soluzione. Spesso queste fasi non hanno uno sviluppo lineare né ordinato, ma sono fra loro “creativamente” concatenate, senza una gerarchia temporale ben distinta (Kline e Rosemberg 1986).
  • L’innovazione è relazione chedipende da un insieme di soggetti, spesso provenienti da mondi ed esperienze differenti che interagiscono costantemente per generare valore nel tempo.
  • L’innovazione va oltre il cambiamento perché implica il fare delle cose nuove o il fare in modo nuovo delle cose che venivano già fatte in precedenza (Schumpeter, 1947).
  • L’innovazione non coincide con l’invenzione anche quando la implica. Se un inventore realizza la “grande scoperta”, ma non trova qualcuno disposto a produrla, la nuova soluzione finisce nei cassetti dell’ufficio brevetti. Per trasformare un’invenzione in innovazione deve esistere un’organizzazione in grado di combinare diverse tipologie di conoscenze, capacità, competenze e risorse. In altre parole: inventare significa concepire un nuovo prodotto (o servizio, o processo), mentre innovare vuol dire mettere in pratica per la prima volta delle nuove idee, parafrasando il pensiero di Fagerberg (Fagerberg, 2005). Schumpeter sostiene che l’inventore produce idee, mentre l’imprenditore le realizza. Oggi, in alcuni settori produttivi, l’attività inventiva, quella innovativa e quella creativa tendono a sovrapporsi. Quindi, come direbbe Mokyr (Mokyr, 1990) in alcuni casi innovazione e invenzione sono complementari.
  • L’innovazione non è un risultato inevitabilmente positivo: chi si occupa di innovazione vive nell’incertezza e sa che i fallimenti sono più numerosi dei successi. Innovare significa generare conseguenze inattese, investendo in capitali e risorse umane senza sapere in anticipo quando si arriverà alla meta ambita.
  • L’innovazione può essere incrementale quandosostanzialmente migliora un prodotto già esistente, arricchendolo di soluzioni che non ne cambiano la logica sostanziale.
  • L’innovazione può essere radicale quandoproduce un salto di paradigma, quando crea un nuovo mercato, quando riconfigura totalmente il modo di pensare o di conoscere un fenomeno, quando determina la nascita di nuove categorie.
  • L’innovazione può scaturire da un pensiero creativo, ma anche da una casualità, numerose scoperte sono avvenute casualmente e migliorate a posteriori, dopo l’evenemenziale accadimento.
  • l’innovazione è una costruzione sociale basata su coesione e fiducia, perché potenziando le reti di condivisione è possibile aumentare il numero e la qualità delle idee vincenti.

Volendo costruire un nesso relazionale tra creatività e innovazione potremmo arrivare al seguente schema:

Iº termineGrado di relazione conIIº termine
CreativitàComprendeInnovazione
CreativitàSufficiente e necessaria perInnovazione
CreativitàAssolutamente distinta daInnovazione
CreativitàNecessaria, ma non sufficiente perInnovazione
CreativitàOpposta aInnovazione
CreativitàGenera soloInnovazione incrementale
CreativitàGenera anche Innovazione radicale
CreativitàIdentica aInnovazione
CreativitàDipende daInnovazione

(Fonte D’Alessandro, 2010[4])

Demitizzare il processo creativo, costruire la didattica dell’errore

Ridimensionare la creatività, scalfirne gli stereotipi, farne un vero oggetto di indagine, trattarla per ciò che è: “una costruzione sociale”; accostarsi con il dovuto distacco, tipico dello scienziato sociale, serve a dare nuova linfa al tema. Nel mio caso ha significato prendere le distanze da me stesso, da quella parte di me che da anni coniuga la ricerca con il mestiere di copywriter e di consulente esperto di strategie di comunicazione.

Lo scienziato sociale ha cercato di vedere il professionista con le sue ritualità. Indagare le mie routine ha permesso di comprendere meglio le abitudini degli altri soggetti incontrati nel corso delle indagini.

Pensare, fare e sbagliare più volte al giorno, sapendo da dove attingere informazioni, ma allo stesso tempo falsificare il percorso intrapreso: questa potrebbe essere una “errante” definizione di creatività. La filosofa Brunella Antomarini sostiene che l’errore, in molti casi, rappresenta una forma nuova e inconsueta di sapienza: «Dalla fisica alla psicologia abbiamo molti esempi di errori che producono ordine e verità e sappiamo che qualche volta non sbagliamo anche se non conosciamo. (…) così come sappiamo che quando cogliamo nel segno, sbagliamo in un altro punto (…) veniamo educati a non fare errori e a identificare verità stabili; allora proviamo a diventarne artefici, col piacere di sentircene autori. Ma possiamo anche pensare che ogni verità sia un passaggio tra forme, combinazioni e transizioni di forme, generate dai loro errori in movimento, proprio come accade nei processi fisici» (Antomarini, 2007: IX, X). Tutte le scienze sono andate avanti con l’errore. Ma in fondo cos’è l’errore se non un pensiero anomalo che, tuttavia, ha una sua logica anche se contro-intuitiva. Far caso alle anomalie permette il balzo in avanti in termini di innovazione. Il post-it è nato da un errore: si voleva produrre una “colla” molto forte e si è prodotta una colla debole; la scelta creativa che ha successivamente determinato l’innovazione non è stata nella creazione in sé della colla, ma nel decidere un nuovo utilizzo di questo prodotto nato per errore. Fleming arrivò alla penicillina osservando, tra i tanti vetrini, uno con la muffa: altri ricercatori avrebbero gettato il vetrino, lui si è soffermato sull’oggetto ammuffito (anomalo), provando a chiedersi perché su quello dove c’era la muffa non vi era traccia di batteri. Fleming elaborò una correlazione e trovò una strada. Altri studiosi non si sarebbero soffermati; egli riuscì a unire il pensiero “erroneo/errabondo” con il metodo rigoroso dello scienziato che tenta correlazioni ardite, ma possibili. L’errore ci conduce verso nuovi sentieri metodologici: dovremmo, forse, introdurre una didattica dell’errore nelle Università? Si può diventare creativi e imparare a “sbagliare” in modo costruttivo. Ricostruendo o de-costruendo modelli su ciò che si è appresso in passato, alleniamo la nostra mente in modo che “renda di più”.

Del resto, cognitivisti come Gardner, neuro-scienziati come Damasio, inventori come Edison, designer come Munari e psichiatri come De Bono, hanno catalogato e classificato le regole di innesco del processo creativo. Allora è possibile articolare una didattica della creatività per ricercatori, artisti o manager d’azienda.

In ogni caso esistono norme evidentemente iscritte all’interno della nostra cognizione e incaricate di combinare, frammentare o rovesciare.


[1] Avrei potuto definire il processo con il termine ‘burocratizzazione’, caro a Crozier e a tanti altri noti studiosi dei processi organizzativi, tuttavia la burocrazia è un fenomeno più complesso; la procedura è uno strumento della burocrazia, ma non è l’unico fattore atto a determinare il fenomeno burocratico.

[2] Florida R., The Rise of the Creative Class, Basic Books, New York, 2002.

[3] Sul tema si veda F. Ramella, Sociologia dell’innovazione economica, il Mulino, Bologna, 2013.

[4] Si veda S. D’Alessandro, Creatività: Normalissima improbabilità?, Aracne, Roma, 2010,p. 158.