Il concetto di ‘Efficacia’ nel pensiero cinese secondo il filosofo François Jullien

Di Simone D’Alessandro

Che differenza c’è tra Occidente e Cina quando si parla di efficacia? Questa domanda se la pone François Jullien, filosofo e sinologo dell’Università di Paris VII, direttore dell’Institut de la Pensée Contemporaine. Nel suo libello – rielaborazione di una Lectio Magistralis tenuta alla Luiss nel 2007, co-edita nel 2011 da Luiss University Press e Sole24ore – intitolato Sull’Efficacia; Cina e Occidente a confronto,Jullien circoscrive la sua navigazione filosofica attorno a tre espressioni che delimitano il concetto di efficacia nella cultura cinese: “potenziale di situazione”, “trasformazione silenziosa” e “obliquità”. Mentre l’uomo occidentale pensa l’efficacia “modellizzando”, costruendo il rapporto fra teoria e prassi in modo che la seconda sia una diminutio rispetto alla prima, il cinese valuta il rapporto tra potenziale e situazione. «Il generale è colui che accumula il potenziale di situazione, come l’acqua che si accumula sulla cima di una pendenza e che, quando si apre una breccia, è pronta a cadere e a trascinare tutto con sé. (…) L’efficacia è, dunque, capacità di esplorare le risorse della situazione, piuttosto che costruire un piano che proietteremo su di essa»[1]. Il generale Sun Tzu ne “l’Arte della Guerra” afferma che coraggio e viltà sono un effetto del potenziale di situazione e non virtù o difetti che si posseggono per natura. Il pensiero cinese non si ciba di metafisica, non costruisce dicotomie binarie tra mezzi e fini, semmai relazioni analogiche tra condizioni e conseguenze: «Quando il nemico arriva riposato, cominciate con il farlo sfiancare; quando arriva sazio, cominciate con l’affamarlo; quando arriva unito cominciate con il disunirlo. Gestite le condizioni in modo che il suo “potenziale” decresca progressivamente e, di contro, il vostro cresca. Non intraprendete il combattimento se non quando tutto il potenziale si è rovesciato dalla vostra parte e, dunque, quando affrontate l’avversario, questi è già caduto»[2].

Del grande generale, quindi, non c’è nulla da lodare; i cinesi non hanno bisogno dell’uomo eroico o della debordante personalità che da sola risolve i problemi. Il grande condottiero è colui che porta alla vittoria con facilità, non con l’estremo sacrificio. Accanto al concetto di potenziale di situazione, si situa quello di “trasformazione silenziosa” secondo il quale i più grandi cambiamenti sono prodotti da infiniti accadimenti quotidiani che non si notano, ma la cui somma porta inevitabilmente allo stravolgimento che diventa evidente soltanto alla fine del processo.

Quand’è che ci si accorge che un figlio si è fatto grande? All’improvviso, eppure ciò che lo ha portato alla maturità è stata la somma di tanti elementi impercettibili. Quand’è che si scopre che una società è cambiata? Dall’oggi al domani, ma non quando ha iniziato a trasformarsi. La Cina è una cultura senza epopea, la sua storia non è caratterizzata dalla costruzione di grandi narrazioni, ma da una continua “trasformazione silenziosa”. Il pensiero cinese non nega l’importanza del singolo o del gesto eclatante, ma lo colloca all’interno di una dimensione “normalizzante”, non iperbolica. Deng Xiao Ping, dal 1976 al 1992, ha trasformato silenziosamente il suo paese attraverso la stagione delle quattro grandi modernizzazioni (industria, agricoltura, ricerca e difesa) senza distruggere il partito comunista cinese pur svuotandolo, nei fatti, dei contenuti ideologici, culturali e politici. Il terzo elemento che costruisce il concetto di efficacia è “l’obliquità” che si oppone alla frontalità.

Lo scontro si fa di faccia, la vittoria si ottiene di sbieco. Si vince quando l’attacco è improvviso, inatteso o straordinario. Comportarsi in modo obliquo non significa necessariamente opporsi alla frontalità, ma capovolgere il senso comune: se l’avversario proverà a imitarti attaccandoti di sbieco, tu lo stupirai attaccandolo frontalmente, perché vincere di sbieco non significa opporsi al frontale, ma a ciò che ci si aspetta. Nel pensiero cinese la relazione con l’altro non è mai scopertamente oppositiva: per questo non è mai autenticamente democratica nel senso occidentale del termine. Mentre dalla Polis greca in poi esiste una tradizione di confronto che nasce dall’agone, ossia dall’opposizione logica e argomentata di due tesi, in Cina la critica a una tesi scaturisce da ciò che non si dice, dal vuoto e non dal pieno, dalla reticenza. Nel pensiero cinese se si vuole che la “parola resti feconda è necessario preservarla”, uccidere lentamente con i silenzi, lasciando che sia l’avversario a porsi il dubbio senza la soddisfazione del confronto diretto.

La fondazione “democratica occidentale” nasce dallo scontro retorico e dalle antilogie (discorso contro discorso). La fondazione “burocratica cinese” scaturisce da un’opposizione che deve essere dedotta da ciò che non si dice.

Jullien, in un saggio che si legge in meno di un’ora, ci restituisce la freschezza di un pensiero millenario che forse dovremmo comprendere meglio per adottarne i precetti migliori.


[1] François Jullien, Sull’Efficacia. Cina e Occidente a confronto, Luiss University Press e Sole24ore libri, Milano, 2011, pp.16-17

[2] François Jullien, ibid., p. 25.