Non esistono regole assolute, conta la situazione e i seguaci che concedono più di quanto il capo meriti
Di Simone D’Alessandro
Felici i tempi in cui puoi provare i sentimenti che vuoi e ti è lecito dire i sentimenti che provi. Tacito
«Negli ultimi cinquant’anni, gli studiosi di leadership hanno condotto più di mille studi per cercare di determinare una volta e per tutte gli stili, le qualità e i tratti caratteriali dei grandi leader. Nessuno di questi studi ha prodotto un chiaro profilo del leader ideale. Meno male. Se gli studiosi avessero individuato uno stile di leadership modello, tutti avrebbero cercato continuamente di imitarlo[1]»: questo è quanto sostenuto dagli studiosi George, Sims, Meclean e Mayer, in un noto saggio pubblicato tredici anni fa sulla Harward Business Review, basato appunto sull’analisi di migliaia di studi sulla leadership. Anche gli psicologi sociali Richard Hackman e Ruth Wageman sono giunti a conclusioni analoghe: «il campo della leadership rimane curiosamente amorfo (…) Non vi sono definizioni comunemente accettate di leadership, non vi è un paradigma dominante per studiarla, e non vi è accordo sulle migliori strategie per svilupparla ed esercitarla[2]».
Un esperto illustre come Keith Grint afferma «Ciò che costituisce una situazione e ciò che costituisce la leadership appropriata per quella situazione sono questioni passibili di diverse interpretazioni e discutibili, che non possono essere risolte in base a criteri oggettivi[3]».
A radunare queste e altre considerazioni (storiche, filosofiche, psico-sociologiche e neuro-scientifiche) sulla leadership è il noto professore della Harvard Kennedy School of Government nonché sottosegretario alla difesa durante l’amministrazione Clinton, Joseph S. Nye Jr nel suo libro Leadership e potere. Hard, Soft, Smart Power, pubblicato in Italiano da Laterza. Nye è noto per aver introdotto il concetto di soft-power che ha influenzato anche Ermete Realacci nell’elaborazione del suo paradigma: la soft-economy. Intellettuale, uomo d’azione e di potere, chi meglio di Nye può contribuire a smentire un insieme di luoghi comuni di cui si beano sedicenti formatori di corsi brevi sul tema? Quanti di coloro si sforzino di trovare assiomi incontrovertibili su come costruire una leadership troveranno sempre casi particolari, eccezioni fuori da ogni regola pre-formattata.
Da certi punti di vista ciò è banalmente intuibile: se un profilo di leader fosse del tutto codificabile in una serie di regole, sarebbe abbastanza semplice anticipare e quindi boicottare le sue mosse.
La leadership non dipende dal singolo, ma da proprietà emergenti che scaturiscono dalla relazione tra tipologie di leader, modi di essere seguaci e contesto di riferimento. Esistono leader scelti dagli eventi (Einstein non volle mai esserlo eppure fu scelto come icona); leader costruttori di eventi (Roosevelt o Gorbačëv, ad esempio); leader che influenzano un’epoca senza che l’opinione pubblica ne prenda atto (Wilson è stato tra i presidenti americani il più ignorato, ma le sue idee furono rivoluzionarie come quella di creare la Società delle Nazioni, tra l’altro fu anche insignito del premio Nobel per la Pace; la Croce Rossa Internazionale venne istituita da un commesso di banca ginevrino, Jean Henry Dunant, sconosciuto ai più); leader che incentivano la critica (Adriano Olivetti); leader che esaltano solo i genuflessi (Zdanov); leader che vincono perché collaborano; leader che vincono perché risolvono problemi senza chiedere aiuto; leader che sanno offrire soltanto sanzioni e meriti; leader situazionali; leader che preferiscono manipolare cercando di trasferire un corpus di valori e di atteggiamenti da chi comanda a chi esegue; leader carismatici capaci di caricare le folle; leader di transizione; leader la cui forza dipende dalla debolezza etc. Ovviamente nel tentativo di trovare le giuste etichette, si sottovaluta sempre il contesto e soprattutto la forza derivante dai cosiddetti sottoposti, persone spesso dotate di più potere (latente) di quanto si pensi. Sottoposti che preferiscono agire e comandare concretamente, dando l’illusione al capo di governare la nave. Sono spesso i secondi a mutare il corso della storia, agendo in modo laterale. Dopodichè si preferisce, per esigenze di semplificazione, attribuire ad uno soltanto il merito di una trasformazione. Un architetto e pensatore anarchico come Colin Ward dimostra in un suo celebre libro[4] che molte positive innovazioni (organizzative, imprenditoriali, politiche) siano scaturite da ammutinamenti, ribellioni nei confronti di un capo ostinatamente fermo su posizioni abituali. Se poi ci vogliamo soffermare alla descrizione dei cosiddetti leader carismatici, dotati di qualità innate e di una notevole capacità dialettica, notiamo che tale carisma viene conferito dai segaci che decidono di farsi dirigere per una serie di motivazioni (comodità, voglia di scaricare la responsabilità salvo re-intervenire nel momento giusto, opportunismo, pigrizia mentale, doppio-giochismo, etc.). Su una cosa sono d’accordo tutti gli studi: la leadership non deriva dal ruolo che si ha, ma da ciò che si è e ancor di più da ciò che si fa. Chi lavora veramente, chi conosce veramente, chi non si lascia ingabbiare dai luoghi comuni, chi non si nasconde dietro i titoli: costui è un leader di fatto. Concludo questo breve articolo con una massima di Lao Tzu, che sia un monito per tutti quei vanitosi e autoritari idioti che credono di avere in pugno la situazione convinti che la visibilità e il gradimento determinino la giustezza della loro condotta:
Il governante più alto è quello della cui esistenza i sudditi si accorgono appena.
Poi viene quello che amano e stimano.
Poi quello che temono.
Infine quello che disprezzano[5].
[1] B. George, P. Sims, A. N. McLean, D. Mayer, Discovering Your Authentic Leadership, in «Harvard Business Review» LXXXV, 2007, 2, p. 129.
[2] J. R. Hackman, R. Wageman, When and How Team Leaders Matter, p. 43 in «Research Organizational Behavior , XXVI, 2005, pp. 37-74.
[3] K. Grint, The art of leadership, Oxford University Press, Oxford, 2000, p. 3.
[4] C. Ward, Anarchia come organizzazione, Eleuthera, Milano, 2010.
[5] Lao Tzu, La regola celeste, Giunti Demetra, Firenze, 2007, p. 40.