Di Simone D’Alessandro
La creatività è un processo che genera innovazioni in cui un’intera comunità popolare prende parte attiva anche se anonima. L’eredità di tale processo viene successivamente ricodificata dallo scienziato o dall’intellettuale elitario che viene visto, erroneamente, come unico gestore del processo scientifico. Questa è la tesi “anti-accademica” di un grande accademico e storico della scienza Clifford Conner. In Storia popolare della scienza (Tropea ed., Milano, 2008, 528 pagine), Conner racconta le rivoluzioni della scienza dal punto di vista degli artigiani, dei fabbri, degli operai e dei mercanti che hanno contribuito al suo sviluppo dal basso, senza gloria o riconoscimenti.
Da sapiente e creativo, lo studioso rovescia gli stereotipi percepiti a proposito dello scontato rapporto virtuoso tra creatività, innovazione, scienza, evoluzione storica e capacità dello scienziato: «La leggenda che circonda la figura di Pitagora illustra in modo efficace la tendenza, a quanto pare di ogni epoca, ad attribuire la creazione scientifica a singole figure di eroi sapienti»[1].
L’autore smaschera gli altarini a cominciare dalla scienza ufficiale, capace di esaltare il genio individuale di uno scienziato, eclissando le influenze dell’ambiente e la tradizione anche popolare, basata su un trasferimento anonimo di conoscenze, frutto di pratiche sociali.
Conner disattiva, inoltre, il luogo comune dell’evoluzione e del progresso irreversibile, sostenendo che ogni epoca sviluppa modalità conoscitive non direttamente confrontabili e non necessariamente migliorabili con il passare del tempo.
In questo senso, dimostra che molte antiche civiltà pre–letterate avevano un sistema di conoscenze che ha di molto aiutato le culture letterate, quando queste ultime hanno deciso di colonizzare nuovi mondi, dialogando in modo etnocentrico con individui che venivano ritenuti meno progrediti: «tutte le piante e le specie animali di cui ci nutriamo al giorno d’oggi, sono state selezionate attraverso la sperimentazione e una vera e propria ingegneria genetica messe a punto dagli antichi popoli preletterati (…) Furono gli amerindi a insegnare agli europei come usare la corteccia di china per il trattamento della malattia, e fu uno schiavo di nome Onesimus a introdurre la pratica dell’inoculazione contro il vaiolo nel Nordamerica. Il merito della scoperta della vaccinazione (…) appartiene a Benjamin Jesty, che di mestiere faceva l’agricoltore. Va, inoltre, detto che fino al Diciannovesimo secolo la scienza medica deve il suo progresso più alle categorie semianalfabete dei barbieri–chirurghi, dei farmacisti, dei praticoni che agli studiosi di medicina provenienti dalle università, la cui influenza ha avuto piuttosto l’effetto di rallentare l’acquisizione di nuove forme di conoscenza. Fu uno svizzero di nome Jakob Nufer, un castratore di maiali, a eseguire intorno al 1500 il primo taglio cesareo documentato. (…) Benjamin Franklin, allorché realizzò la prima Carta della Corrente del Golfo, riconobbe di essersi basato esclusivamente su ciò che aveva appreso da semplici balenieri. La chimica, la metallurgia e la scienza dei metalli in genere ebbero origine dalle conoscenze accumulate da antichi minatori, fabbri e vasai. La matematica deve la sua esistenza e gran parte della sua evoluzione nel corso dei millenni, ad agrimensori, mercanti, contabili e meccanici. E infine, il metodo empirico che caratterizzò la rivoluzione scientifica del Sedicesimo e Diciassettesimo secolo (…) emersero dai laboratori di artigiani (…) la scienza, così come la intendiamo oggi, ha origine in fonti popolari e artigianali; è diventata ciò che è sfruttando ampiamente queste fonti. Il progresso della conoscenza, affermava Popper, è avvenuto principalmente attraverso la modificazione delle conoscenze precedenti»[2].
Oggi quest’ultima affermazione potremmo ricontestualizzarla dicendo che ogni innovazione radicale è il frutto di costanti incroci di piccole innovazioni incrementali. Conner rovescia il rapporto tra attività intellettuale e attività manuale, dando più importanza alla seconda che alla prima; egli posiziona la manualità come principio creativo che apporta dati preziosi alla teoria e rovescia anche il rapporto scienza/tecnologia, proponendo, fonti alla mano, che sia stata la tecnologia a sorgere prima, dando basi fondative alla scienza stessa. La scienza non è staccata dai fini pratici, in altre parole, e non esiste una scienza dura o naturale gerarchicamente superiore a una scienza molle o sociale, anche perché scienze esatte e oggettive non potranno mai affrontare, oggettivamente, il mondo della complessità del soggetto escludendo le scienze sociali. Il pensiero di Conner presenta numerose affinità con la riflessione sociologica di Becker e di De Masi. Questi ultimi, in alcune delle loro opere più celebri[3], dimostrano che la creatività è frutto di un processo collaborativo in cui la nozione stereotipata dell’autore individuale tende a decadere. Le idee nascono per contaminazioni continue e influenze anche accidentali, per cui alla fine di ogni processo creativo risulta difficile attribuire il merito a una singola persona.
[1] D. C. Conner, Storia popolare della scienza, Tropea, Milano, 2008, p. 9.
[2] D. C. Conner, op. cit., p. 11.
[3] Tra cui spiccano in particolare: H. S. Becker, I mondi dell’arte, Il Mulino, 2004; D. De Masi, L’emozione e la regola. Gruppi creativi in Europa dal 1850 al 1950, Laterza, Bari, 1989; D. De Masi, L’ozio creativo, Rizzoli, Milano, 2000; D. De Masi, La fantasia e la concretezza. Creatività individuale e di gruppo, RCS libri, Milano, 2003.