Ambivalenza, il male del nuovo millennio?

Di Simone D’Alessandro

Era il 1911 quando Eugen Bleuler – lo stesso che nel 1908 aveva coniato il termine schizofrenia – introdusse la parola “ambivalenza”.

Secondo lo psichiatra svizzero esistono tre forme di ambivalenza: 1) i rapporti di amore-odio nei confronti dello stesso oggetto; 2) l’incapacità di scegliere (o di concepire una scelta) tra bisogno o tra desideri; 3) l’adesione simultanea a idee o credenze incompatibili o contraddittorie tra loro.

Ma cos’è l’ambivalenza: indecisione, ambiguità, patologia, suicidio sociale o risorsa creativa?

Su questa parola l’analista strategico Kenneth Weisbrode ha provato a dare una spiegazione esaustiva, ma altrettanto ambivalente in un saggio pubblicato nel 2012 dal Massachussets Institute of Technology con il titolo On Ambivalence: the problem and the pleasures of having It both ways; e, contestualmente, in Italia da Indiana Edizioni con il titolo Tutto e Niente. Meditazione Filosofica per insoddisfatti cronici.  

«Proprio come c’è una differenza tra l’elogio e la celebrazione, allo stesso modo l’indecisione e l’ambivalenza non sono la stessa cosa (…) non prendere una decisione e prenderla quando non si ha intenzione di farlo sono operazioni che richiedono lo stesso tempo. Ma l’indecisione è un difetto caratteriale, mentre l’ambivalenza è una condizione dello spirito. Quest’ultima è più paralizzante, perché combina l’incapacità di scegliere con il rifiuto di ammettere la necessità di una scelta. Ciò esige più responsabilità, non meno, per conseguire un risultato accettabile. Una persona ambivalente cerca di superare i limiti della natura umana; un indeciso, semplicemente, non è una persona libera»[1].

Mentre la prima modernità, dalla rivoluzione industriale fino ai conflitti mondiali, aveva costruito degli argini sociali all’ambivalenza, la post-modernità sembra aver celebrato l’ambivalenza in ogni suo aspetto: intimo, socio-economico e politico. Bauman sostiene che l’ambivalenza appartiene all’odierna società liquida concentrata sulle (false) necessità dei consumatori piuttosto che sulle abilità dei produttori. Un consumatore educato all’ambivalenza diventa uno strumento nelle mani dei mercati. Egli vive da naufrago in una condizione di desiderio incessante: vuole tutto e il contrario di tutto. Una cultura basata sull’eccesso di opzioni favorisce l’ambivalenza, innescando una serie di paradossi e di patologie: «L’ambivalenza ci fa pensare più al movimento che alla destinazione o alla direzione. Il fatto di andare su e giù, avanti o indietro, potrebbe essere meno interessante della velocità o della lentezza con cui ci spostiamo e di cosa vediamo o facciamo lungo la strada. Ciò che vogliamo sembra essere il desiderio stesso»[2].

Forse ognuno di noi, nel profondo, vorrebbe preservare in eterno opzioni fra loro inconciliabili: essere e non essere al tempo stesso, volere una cosa in un modo e nel suo esatto contrario, conciliare il legame con qualcuno e liberarsi dalle responsabilità che il vincolo implica. Ma tutto questo potrebbe rappresentare una minaccia, come un’opportunità: «Pensare contemporaneamente a una cosa e al suo opposto ci costringe a mettere a punto un linguaggio in grado di mediare tra due poli, per impedire che questi ci portino alla schizofrenia (…) le strutture di mediazione si comportano come una cellula inibitoria all’interno della personalità sociale: come un semaforo giallo che ci dice di fermarci prima di andare avanti alla rinfusa col verde o di rimanere immobili con il rosso (…) i semafori gialli non ci inabilitano, ma ci aiutano semplicemente a capire in modo sicuro dove stiamo andando»[3]. Del resto: «il banco di prova di un’intelligenza di prim’ordine è la capacità di tenere due idee opposte in mente nello stesso tempo e, insieme, di conservare la capacità di funzionare»[4]. Eppure, l’ambivalenza genera mostri quando dal piano dell’intimità e della riflessività individuale, si sposta sul piano della condivisione sociale. La paralisi decisionale che si manifesta in molti paesi ricchi ne è la prova evidente. Interconnettività, intercambiabilità e ibridazione scandiscono un’epoca predisposta (più o meno forzatamente) al multitasking e alle relazioni incessanti/incalzanti che ci propongono i social network. Stabiliamo conoscenze, ma rimandiamo i tempi del “legame” profondo e della selezione delle tipologie relazionali.

Avere ogni giorno la possibilità di dire “per il momento non lo so, ma fra un po’ te lo farò sapere” costituisce il più grande blocco sociale mai visto dalla modernità ad oggi. Il “rimandare” esasperato è collegato al tema dell’ambivalenza che da patologia personale si è trasformata in patologia sociale. L’epoca delle “non scelte” costruita sull’auto-inganno di “tutte le scelte possibili” ci rende bi-polari. In futuro i sistemi educativi dovranno stabilire se tutto ciò ci rende maggiormente disponibili al cambiamento o semplicemente vulnerabili e incapaci di agire.


[1] K. Weisbrode, Tutto e niente. Meditazione filosofica per insoddisfatti cronici, Indiana editore, Milano, 2012, p. 21-23.

[2] K. Weisbrode, op. cit., p. 31.

[3] Ibidem, p. 32.

[4] F. S. Fitzgerald, Le età del jazz ed altri scritti, Il Saggiatore, Milano,1966, p. 67.