Abolire la proprietà intellettuale potrebbe accelerare l’innovazione?

Di Simone D’Alessandro

«Se la gente avesse capito come si concedono i brevetti nel momento in cui la maggioranza delle idee di oggi sono state inventate e avesse chiesto di brevettarle, il settore sarebbe entrato in completa impasse». Questa dichiarazione, rilasciata dal Bill Gates nel 1991 (quando la Microsoft era forte, ma non ancora un colosso) è una delle numerose frasi ad effetto presenti in un libro di Michele Boldrin e David K. Levine dal titolo “Abolire la proprietà intellettuale”, Laterza, Bari, 2012. La tesi dei due economisti della Washington University di St. Louis è semplice e, con i dovuti distinguo, anche condivisibile: “per favorire l’innovazione o accelerarne alcuni processi bisognerebbe abolire la proprietà intellettuale”.

Ovviamente l’analisi descritta nel libro è molto più articolata. Gli autori analizzano seriamente la storia dei rallentamenti di numerosi processi innovativi, dovuti a un nefasto utilizzo della proprietà intellettuale. Tuttavia, utilizzano in modo forzato le opinioni dei grandi guru. Torniamo, per un attimo, alla dichiarazione rilasciata da Bill Gates e cerchiamo di completarla con altre frasi collegate alla prima e riportate in un memorandum Microsoft del 1991: «Se la gente avesse capito in che modo sarebbero stati concessi i brevetti quando fu inventata la maggior parte delle idee di oggi e avesse depositato un brevetto, l’industria sarebbe oggi completamente paralizzata. La soluzione è brevettare tutto quello che possiamo. Un’azienda agli esordi che non disponesse di propri brevetti verrebbe obbligata a pagare qualsiasi prezzo che i giganti decidono di imporre».

Boldrine e Levine hanno estrapolato dal contesto senza citare la seconda affermazione di Gates nella quale si afferma che ogni impresa agli esordi deve innovare, ma anche difendersi dalle aggressioni esterne. Allora il discorso si complica: se è vero che l’eccesso di brevetti rallenta l’innovazione, evitando la condivisione delle conoscenze in tempo reale, è anche vero che se non ci fosse alcuna possibilità di tutela, i colossi potrebbero decidere di copiare da piccoli inventori solerti per poi rivendere meglio, potendo contare su maggiori canali distributivi e su un investimento in comunicazione tale da oscurare il primato dell’inventore.

Il vero tema non è la proprietà intellettuale in sé, ma i modi e i tempi attraverso i quali farla rispettare, evitando che essa si dimostri semplicemente un monopolio, ossia la negazione del concetto stesso di libero mercato (e parlo di concetto perché, ad oggi, il libero mercato rimane ancora una grande utopia). Teoricamente, in un regime capitalistico caratterizzato dalla tutela della proprietà privata, ciò che vale per un terreno o per un bene immobile, dovrebbe valere anche per un’idea. Se una persona acquista una casa può decidere di rivenderla o ristrutturarla. Se più individui acquistano – da un soggetto terzo – un’idea libera da copyright o da brevetto, possono decidere di migliorare l’idea o cestinarla; non possono impedirsi vicendevolmente l’utilizzo, né possono impedire al soggetto che ha venduto loro l’idea, di rivederla ancora.

Ma quando un’idea è tutelata da brevetto/copyright, i soggetti che hanno deciso di tutelarsi possono monopolizzare l’idea dicendo ad altre persone come possono o come non possono usarla.

In altre parole, la cosiddetta proprietà intellettuale, ad oggi, consiste in una forma particolare di proprietà che per definizione crea ostacoli alla concorrenza. In regime di piena concorrenza l’innovazione corre più veloce. Un esempio eclatante è rappresentato dal settore dei software, dove vale la legge del diritto d’autore ma non quella del brevetto, in cui le innovazioni sono avvenute più rapidamente rispetto ad altri campi. Ad oggi la proprietà intellettuale/brevetto contiene, citando i due economisti, «il diritto di esclusione dall’uso, ossia il diritto di monopolizzare una certa idea impedendo ad altri il libero utilizzo». Allora si tratterebbe di monopolio intellettuale e non di proprietà intellettuale. In questo senso le leggi in materia dovrebbero essere riviste. Il tema è, però, controverso: sono all’ordine del giorno i casi in cui una piccola realtà investe tutto su un nuovo prodotto, per poi rischiare il fallimento nel momento in cui si accinge a lanciarlo sul mercato.

Nel momento di massima difficoltà interviene una grande azienda che si prodiga per aiutare la piccola. In che modo? Ricomprandola, o copiando il prodotto, o acquistando il brevetto.

Solo nell’ultimo caso, forse, la piccola azienda riesce a riguadagnare le perdite dovute al tempo impiegato in ricerca e sviluppo, consapevole del fatto che se avesse investito anche nella commercializzazione del prodotto, molto probabilmente sarebbe morta. Tuttavia, è anche vero che la grande impresa potrebbe decidere di comprare il brevetto per eliminare il nuovo prodotto o decidere di rinviare il suo lancio, in modo da favorire altri prodotti obsoleti ma ancora profittevoli. Ciò a tutto detrimento del salto innovativo e soprattutto della schumpeteriana “distruzione creatrice” che da sempre alimenta lo spirito della libera concorrenza. Ma esiste la libera concorrenza o assistiamo da sempre a prove di forza tra chi ha più potere (legale, commerciale, distributivo, comunicativo) e chi può solo essere fornitore di idee? Voi cosa ne pensate?