E se la coscienza si trovasse fuori di noi? La teoria radicale del filosofo Alva Noë

Di Simone D’Alessandro

Forse la consapevolezza del sé risiede nel mondo e non nel ‘cervello-mente’.

Molto probabilmente essa si costruisce a partire dalle relazioni tra persone e contesti.

Questa, in estrema sintesi, la riflessione di Alva Noë, membro dell’Institute of Cognitive and Brain Science e professore di filosofia presso l’Università Californiana di Berkeley dove è nata la rivoluzione del ’67 che ha poi influenzato il maggio francese e il ’68 italiano, la stessa Università dove insegna il grande filosofo Searle. Secondo Noë la coscienza non è qualcosa che accade dentro di noi, ma qualcosa che creiamo e facciamo, somigliante di più alla «danza che alla digestione[1]». Questa prospettiva ribalta radicalmente l’approccio neuro-scientifico e cognitivistico classico, in quanto afferma che la coscienza «non è qualcosa che il cervello ottiene da solo. La coscienza [non si trova dentro l’individuo ma] richiede l’operazione congiunta del cervello, del corpo e del mondo»[2]. Identità, decisione e coscienza dipendono dalla relazione con l’esterno.

«La relazione che si instaura tra il bambino e colei, o colui, che se ne prende cura è davvero paradigmatica (…) non esiste una distanza teorica tra il bambino e chi se ne prende cura. Il bambino non chiede se la propria mamma sia o no un essere animato. Per il bambino, la coscienza viva della madre è semplicemente qualcosa di presente, così come il suo calore o il suo respiro; essa è, in parte, ciò che anima la loro relazione. (…) Come il bambino nella relazione con sua madre, noi siamo coinvolti l’uno con l’altro. È il nostro coabitare insieme che assicura la nostra viva coscienza per ciascun altro. (…) è una questione pratica o meglio ancora un dilemma morale»[3]. Prima di arrivare a sostenere tale tesi, l’autore ha studiato il comportamento di soggetti che si trovano in Stato Vegetativo Permanente o affetti da Sindrome del Chiavistello, una particolare forma di coma dove il soggetto non sembra dare riscontro di ciò che accade fuori di lui (perché il suo corpo e il suo viso non reagiscono mediante alcuna forma di espressione) pur essendo vigile e ascoltando tutto.

Secondo alcune rilevazioni l’attività neurale del cervello nel corso della percezione è caratterizzata da flussi bidirezionali e circolari che vanno dal cervello ai sensi e viceversa. Ciò è stato riscontrato sia tramite Pet (Tomografia ad Emissioni di Positroni che produce bio-immagini del corpo) sia da immagini prodotte da Fmri (Risonanza Magnetica Funzionale che evidenzia i segnali cerebrali). Cervello e mondo producono assieme ciò che noi riteniamo di sapere sul nostro modo di esserci, sui nostri ricordi e sull’identità. Da una parte si ha la tendenza interna (del nostro cervello/mente/corpo) a ricostruire necessariamente sul piano logico e diacronico ciò che percepiamo (gli psicologi Fritz Heider e Marianne Simmel nel 1940 hanno dimostrato che la maggior parte delle persone che vedono un filmato senza senso tendono a ricostruire una storia che abbia senso: questo è un bisogno dell’uomo, sviluppato nel corso della sua evoluzione, evidentemente funzionale alla sopravvivenza) dall’altra le relazioni con il mondo, i sensi e gli altri individui costituiscono il nostro paesaggio psicologico. Se il cervello è dentro di noi forse la mente è a metà strada, nella relazione con tutto il resto. Inoltre, la maggior parte delle nostre abilità migliori sarebbero il frutto di una praticità relazionale immediata, poco riflettuta nel senso teorico del termine. Come dire: balliamo bene quando non pensiamo ai passi da fare, non appena cominciamo a pensarci sbagliamo!

Il testo di Noë non è difficile da comprendere, tutt’altro. La semplicità è il suo punto di forza. Tuttavia, la vera difficoltà consiste nel non avere un linguaggio sufficientemente sviluppato per chiarire alcune definizioni contro-intuitive. Cosa significa, in realtà, interagire relazionalmente a livello pratico senza avere uno schema logico precedente che ti guida? Come si può immaginare di incrementare la nostra consapevolezza attraverso l’esterno se non c’è un elemento interno in grado di codificare la sensazione dell’esserci? Ovviamente c’è un problema di linguaggio.

La nostra capacità di pensare è collegata alla nostra capacità di agire: in questo processo continuo non esiste una gerarchia precisa, non vi è un prima o un dopo, anche se quando dobbiamo analizzare le cose sul piano verbale – in modo da spiegarle agli altri e a noi stessi – dobbiamo necessariamente iniziare da un “prima” e arrivare a un “dopo”. Spiegare la coscienza come rapporto circolare esterno/interno è un po’ come tentare di spiegare la curvatura dello spazio-tempo o il movimento contemporaneo a onda e a particella. A volte il nostro pensiero riesce a elaborare concetti sprovvisti di parole adatte e, in altri casi, parole ancora in cerca di significato.  


[1] A. Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, Raffaello Cortina, Milano, 2010. p. XIV.

[2] A. Noë, op. cit., 2010. p. 10.

[3] Ibidem p. 35-36.