Verso una società di Ibrividui? L’incrocio tra umano e non-umano

Di Simone D’Alessandro

Possiamo ancora parlare di supremazia del vivente umano rispetto agli altri viventi non-umani?

Se seguissimo la visione umanistica classica – seguendo le argomentazioni di Pico della Mirandola – dovremmo ritenere l’uomo “apice della catena evolutiva”, unico animale consapevole della propria incompletezza che tenta di colmare mediante costrutti simbolici.

Se, invece, abbracciassimo la via post-umanistica, dovremmo demolire il mito dell’uomo unico e puro, sostenendo che egli sia sempre pronto a ibridarsi con le tecnologie che inventa, l’ambiente in cui vive e gli altri viventi non-umani. Sottopongo all’attenzione del lettore e dello studioso questo dilemma, sottolineando il fatto che nonostante le scienze sociali abbiano compreso e condiviso i fondamenti del paradigma della complessità, difficilmente abbandonino il sentiero della classificazione riduzionistica basata sulla contrapposizione binaria dei concetti.

Dovrebbero soccombere le contrapposizioni identità/alterità, stabilità/mutamento, natura/cultura. L’uomo stabilisce una relazione con tutto ciò che gli è estraneo: cose, animali, artefatti.

I rapporti di mutua ibridazione tra uomo, tecnica e ambiente di riferimento sono stati spesso ignorati, in virtù di una visione antropocentrica che vuole a tutti i costi mettere in condizioni di superiorità questo essere pensante, adducendo come giustificazione il fatto che egli sia l’unico essere ad aver coscienza del suo pensiero e del suo essere nel mondo. Tuttavia, da certi punti di vista, si potrebbe dissentire sull’unicità umana della cognizione/coscienza: esistono vari stadi del comprendersi e dell’esserci, alcuni dei quali non appartenenti in via esclusiva al genere umano. Difendere lo statuto ontologico particolare dell’uomo risulta una forzatura, non soltanto in virtù delle recenti rivelazioni in campo biotecnologico, ma anche a partire dalle prospettive filosofiche del secondo Novecento che hanno intrapreso la via, senza ritorno, del superamento dell’antropocentrismo e dell’abolizione del mito separatista tra natura e cultura (sentiero avviato da Nietzsche e proseguito da Foucault e Derrida[1]).

Lo studioso di scienze biologiche Marchesini afferma: «L’umano non è un frutto puro, costruito per emanazione o per complementazione, ma un sistema attraversato da contaminazioni[2]».

L’identità è, in questo senso, né struttura né flusso, ma struttura fluente. Creatività, cura, abilità comunicativa, senso di appartenenza, orientamento, amore, difesa del territorio, ricorso alle abitudini, memoria, senso del gruppo, senso della gerarchia, sono presenti anche in altri mammiferi e non è escluso che anche le piante siano dotate di alcune delle suddette attribuzioni, così come un minerale come l’acqua è dotato di memoria[3]. Allora le vecchie categorie che separavano l’uomo da tutto il resto non sono più sufficienti a mantenere alta la barriera: la relazione tra umano e non-umano diventa fluida, muovendosi all’interno di un sistema circolare di reciprocità figura/sfondo. Non di individuo, ma di Ibrividuo bisognerebbe parlare, arrivati a questo punto del discorso. L’Ibrividuo potrebbe rappresentare la nuova categoria sociologica del XXI secolo: l’essere vivente umano in grado di incrociarsi efficacemente con l’altro da sé, non soltanto umano.

Questo neologismo (Ibrividuo, ossia: individuo ibridato) è stato coniato dal sottoscritto per ribadire che ogni uomo è un individuo disposto a ibridarsi con il resto: ciò che cambia da individuo a individuo è, semplicemente, il grado di ibridazione. L’uomo incontra il fuoco e scopre la cottura della carne, perdendo i denti aguzzi, mentre il suo apparato digerente subisce modificazioni. L’uomo realizza vestiti diventando più esposto ai cambiamenti degli agenti climatici.

L’uomo incontra la ruota e cambia il suo rapporto con il tempo e lo spazio. L’uomo inventa e interagisce con l’aspirina e si affranca da alcune patologie. Qualsiasi relazione prima o poi “altera”, “adultera”, “incrementa” o “decrementa”, “sfuma” o “arricchisce di ambiguità” le possibilità di coloro che hanno scelto la relazione. La realtà è coacervo di impurità. Tutto ciò che in essa funziona smentisce sistematicamente teorie, modelli e astrazione. L’uomo, nella vita di tutti i giorni, asseconda la materia, ibridandosi con le sue possibilità e nei limiti del possibile. La scrittura è già una tecnologia del sé; la tastiera del computer ha già alterato il nostro rapporto mente-parola-mano rispetto al rapporto precedentemente instaurato dalla penna. Qualsiasi tecnologia sembra avere lo stesso comportamento di un virus: è in grado dipenetrare nel vivente e di riorganizzarlo o almeno di modificare alcune modalità auto-organizzative. L’uomo è sempre stato un ibrividuo, ma forse ne sta prendendo coscienza solo adesso. Non bisogna contrastare re relazioni tra umano e non umano, bisogna casomai impedire relazioni dis-umane tra umano e non-umano.


[1] Si vedano in proposito: L. H. Martin, H. Gutman, P. H. Hutton (a cura di), Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1992e J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano, 2006.

[2] R. Marchesini, op. cit., 2009, p. 77.

[3] C’è comunque un problema di linguaggio quando si cerca di trasportare proprietà appartenenti all’uomo (e da lui definite) verso altri sistemi.