L’Ozio creativo. De masi e la dimensione collettiva dell’innovazione

Di Simone D’Alessandro

L’immaginario collettivo di una società storicamente determinata gioca un ruolo fondamentale nella formazione dei processi creativi e nell’interpretazione fenomenologica del concetto di creatività.

Le dimensioni sociali della creatività sono state poco analizzate o sottovalutate da una certa visione occidentale che ha sempre correlato e spesso confuso la fiera e libertaria indipendenza del genio con la sua dimensione individualistica e solitaria. Esiste, di converso, una dimensione collettiva della creatività. Le premesse sociali sussistono sia nei sistemi fondati su etiche individualistiche, sia in società vicine al collettivismo. Autori come George Gurvitch e Michele La Rosa hanno affrontato questo tema, enfatizzando le potenzialità dello spontaneismo collettivo come scintilla della creatività sociale consapevole. Autori come Lewis Feuer (1969), Alfonso Montuori e Ronald Purser (1997) si sono invece concentrati sulle variabili religiose, economiche e culturali che permettono ad alcune epoche di essere più creative di altre. Ma è l’eminente sociologo e studioso della creatività, Domenico De Masi (1989; 2000; 2003) ad aver contrapposto il processo creativo alle alienanti procedure dall’organizzazione meccanicistica e iper-efficientista del lavoro.

Secondo De Masi la creatività emergerebbe soprattutto in strutture organizzative flessibili, collaborative, fondate sul lavoro di squadra, attente all’informalità e all’estetica.

Nell’opera L’Emozione e la Regola (1989), presenta tredici modelli molto diversi per settore ed esiti, ma con molti elementi in comune: dalla Casa Thonet al Bauhaus, dagli intellettuali di Bloomsbury al circolo filosofico di Vienna, dall’Istituto Pasteur algruppo di fisici di via Panisperna. Passando per esperienze più o meno famose, l’autore dimostra quanto il gruppo sia assolutamente funzionale al processo creativo, spesso in misura maggiore rispetto alla dimensione individuale.Il pensiero di De Masi, inoltre, contrappone il modello taylorista – organizzazione scientifica della produzione industriale e della divisione del lavoro – a un modello organizzativo caratterizzato da strutture partecipative.

Il gruppo esprime, attraverso un’organizzazione flessibile, risultati superiori alla somma dei singoli componenti, come oggi è rilevato ampiamente dalla teoria della complessità e dal knowledge management. De Masi, infine, dimostra che se mettiamo in relazione la nostra incapacità di risolvere i problemi del lavoro e della vita, con i ritmi stressanti della nostra esistenza quotidiana, ci rendiamo conto che l’attuale carenza creativa non deriva dalla scarsa operosità ma dal suo eccesso. Ciò che manca alla nostra creatività, per far respirare la nostra mente, è l’ossigeno del tempo libero.

Nell’Atene di Pericle i giorni festivi erano quasi più numerosi di quelli lavorativi per chi doveva pensare. Non diversa era la vita sociale nella Firenze medicea dove le botteghe artistiche erano, al tempo stesso, luoghi di lavoro e club di confronto culturale. Qualcosa di analogo avveniva nella Vienna mitteleuropea laddove Hoffmann, Musil, Klimt e Mahler trascorrevano molte ore al giorno nei meravigliosi caffè liberty, indugiando in fecondissime conversazioni interdisciplinari che oggi molti nevrotici dell’efficientismo fine a se stesso scambierebbero per chiacchiere sfaccendate, ma che, al contrario, produssero il meglio della cultura innovativa. Per stimolare il pensiero creativo sarebbe auspicabile costruire un sano equilibrio tra libertà e necessità, ozio e negozio, quiete e tempesta.