E se affidassimo il nostro futuro a manager-artigiani?

Di Simone D’Alessandro

Le persone possono apprendere informazioni su di sé attraverso le cose che fabbricano; la cultura materiale è importante tanto quanto quella intangibile.

È possibile realizzare una vita materiale più umana, se solo si comprende meglio il processo del fare. Queste sono alcune delle affermazioni sostenute nel recentissimo saggio di Richard Sennett dal titolo l’Uomo Artigiano, pubblicato in edizione italiana dalla Feltrinelli nel 2009.

Professore di Sociologia alla New York University e alla London School of Economics, Sennett è stato uno degli ultimi allievi di Hannah Arendt.

Egli elogia la maestria degli artigiani d’un tempo che oggi rivive nelle società che non hanno rinunciato al nesso inscindibile tra mano e testa, pratica e teoria, abilità e metodo, esperienza fisica e progettualità, rituale e improvvisazione, replicabilità e personalizzazione.

Due sono le tesi di fondo di Sennett:

  • tutte le abilità, anche le più astratte, nascono come pratiche corporee;
  • l’intelligenza tecnica si sviluppa attraverso le facoltà dell’immaginazione.

La prima tesi pone l’accento sulla conoscenza acquisita dalla “mano” attraverso il tatto e il movimento. La seconda argomentazione analizza il “linguaggio” che dirige l’abilità corporea.

Ogni uomo autenticamente creativo è, necessariamente, anche un bravo artigiano che conduce un dialogo tra le pratiche e il pensiero; questo dialogo si concretizza nell’acquisizione di abitudini di sostegno, le quali creano un movimento ritmico tra soluzione e individuazione dei problemi.

Non c’è niente di automatico nel diventare tecnicamente abile, così come non c’è niente di brutalmente meccanico nella tecnica in sé. Sennett, partendo dalle pratiche degli uomini artigiani, veri detentori dello spirito inventivo di ogni civiltà, elabora le sue regole sui processi creativi:

  • l’uso di strumenti imperfetti o parziali stimola la capacità di riparare e improvvisare;
  • la resistenza e l’ambiguità sono istruttive, aiutano a lavorare bene; l’artigiano – anche di nuova generazione – non deve combattere ma assecondare tali fattori;
  •  l’abitudine manuale incrementa abilità e intelligenza;
  • la motivazione conta più del talento; l’aspirazione alla qualità, propria dell’artigiano, costituisce un pericolo a livello motivazionale, perché l’ossessione di ottenere risultati assolutamente perfetti può deformare il lavoro stesso; allora il fallimento è dovuto più all’incapacità di organizzare che alla mancanza di abilità particolari;
  • il grande artigiano inventa rituali che abituano al risparmio (e qui sembra di riascoltare gli insegnamenti di Munari, De Bono e Scannagatta sul felice connubio tra routine e innovazione).

Come dicevamo Sennett, oltre allo studio dei mestieri del passato, prende in esame organizzazioni contemporanee, tra cui Linux che considera una realtà radicalmente innovativa, perché a metà strada tra laboratorio artigiano e impresa high-tech.

Non si tratta di tornare al laboratorio dei secoli scorsi, ma di preservare valori e pratiche che si contrappongono fortemente alla cultura consulenzial-generalista tipica del sistema tecno-finanziario anglo-americano. Sennett prende in esame coloro che sono abili ed esperti di un settore perché “operano” in continuazione, pur sbagliando, e hanno orgoglio di appartenenza e autonomia decisionale anche quando sono dipendenti.

Egli contrappone tali soggetti a quelli che hanno una visione lavorativa orientata soltanto alla remunerazione, pronti a riciclarsi in modo molto rapido ma senza alcuna vocazione.

Questi ultimi sono bravi a vendersi al miglior offerente, strappando cifre esose, salvo poi essere licenziati per evidente incompetenza: un mal-costume divenuto abitudine in molti ambienti.

Nella sua opera Sennett sviluppa un modello di interdipendenza tra intelligenza, creatività e manipolazione pratica, ponendo il modo di pensare dell’artigiano come punto di riferimento per coloro che intendono scoprire o inventare qualcosa.

In questo senso l’Italia ha molti più esempi dell’America: moltissime PMI – che continuano a costituire l’ossatura economica italiana – appartengono culturalmente ad una dimensione più artigianale che industriale.

Il problema è capire in che modo costruire un felice connubio: fino a che punto occorre la maestria e fino a che punto la capacità organizzativa? L’Italia potrebbe essere un modello virtuoso se riuscisse a organizzare meglio i suoi talenti produttivi. Dopo la crisi finanziaria internazionale non sarebbe tempo di affidarsi a manager-artigiani?