Di Simone D’Alessandro
Lentezza/Desiderio, Velocità/Accumulazione
In epoche lente l’uomo sogna di cambiare gli errori del passato attraverso la malinconia rivivendo, nel ricordo o nella variazione di esso, la possibilità del cambiamento esistenziale, il desiderio di incidere sul proprio destino, cambiandolo (almeno) virtualmente. In epoche veloci, al contrario, gli errori del passato vengono recuperati inseguendo il futuro, bruciando nuove tappe, accumulando nuove esperienze, nel tentativo di cancellare quelle precedenti.
Inseguire il futuro per cambiare il passato diventa l’unica possibilità concreta sul piano empirico anche se insostenibile sul piano logico. In epoche veloci, inoltre, accade che l’accumulazione continua delle esperienze non incida sullo “storico vissuto” del soggetto, ma soltanto sulla sensorialità. Le esperienze non sono più un bene prezioso da custodire e memorizzare per il futuro, ma atti fra loro scollegati ed emozionalmente caduchi.
Proiezioni di attività
All’aumentare delle esperienze il loro valore intrinseco decade. Vivere troppo nell’azione induce le persone a non dare più importanza alle azioni stesse. Di conseguenza il passato (inteso come sistema di azioni già compiute) diventa irrilevante, perché poco incidente sulle azioni future.
Lo scarso valore del passato dispone l’uomo alla scalata progressiva verso l’orizzonte “a venire” che permette il continuo stravolgimento della propria esistenza, scandita non più da esperienze fatte e custodite, ma da “attività/procedure da fare” che vengono subitamente rimosse o sostituite da altre. Il successivo diventa più importante del precedente e dell’immediato. L’uomo veloce vive immancabilmente mancante dell’immediatezza attiva: vive di proiezioni di attività.
Nel momento in cui agisce sta già pensando a quello che farà in seguito, di conseguenza pone un’attenzione sbrigativa a quello che sta compiendo ora. Persino l’atto del compiersi diviene incompiuto perché non totalmente elaborato da colui che lo compie.
Movimento non è cambiamento. Comprendere vuol dire: ribadire!
In epoche veloci il soggetto scambia il “continuo movimento” per “cambiamento”, ma non è così.
Ogni atto che si compie procede attraverso un’azione, ossia un movimento generato da una separazione tra ciò che era e ciò che sta diventando. L’atto stesso del conoscere è movimento, perché costituito dall’azione che il soggetto compie percependo il tutto, più un nuovo atto che compie separando questo tutto nelle singole cose che vuole imparare, definendole e codificandole nello spazio e nel tempo, separandole dal “continuum” fenomenico della realtà visibile e percepibile. Lo spazio e il tempo diventano proiezioni necessarie al soggetto per l’apprendimento. Lo spazio è il tempo materico. Il tempo è lo spazio immateriale. Il movimento è “variazione” di uno stato, ma anche ciò che varia ha un principio ripetitivo: un’unità di senso, per essere percepita come tale, ha bisogno di essere presa “sempre così” e com-presa “così per sempre”. Questo “essere per sempre” significa “ogni giorno ri-proporsi” al soggetto, come dire: ciò che è unico ha bisogno di essere “ribadito” se vuole essere compreso.
La ripetizione può generare grandi cambiamenti? La ripetizione è già una “differenza”?
Il soggetto percepisce le cose quando esse compaiono, ma le comprende quando esse “ri-compaiono” perché egli (il soggetto) ha tempo per “pensarci su”. Per questo l’eternità viene percepita dal soggetto come un atto che si ripete ogni giorno puntualmente senza fine.
La ripetizione continua e senza limiti genera, paradossalmente, l’eterno che è immutabile e quindi per definizione contrario alla mutabilità della ripetizione. Ciò che si muove nello spazio ha bisogno di ripetere sé stesso in un “altrove”. Ecco che la ripetizione determina lo spostamento.
Spostarsi significa già di per sé ripetersi fisicamente. E se lo spazio fosse un luogo capace di accogliere ripetizioni continue in localizzazioni differenti? Tra ricordo (passato), manifestazione (presente) e proiezione (futura) esiste semplicemente una differenza percettiva soggettiva se partiamo dal presupposto che il soggetto ha bisogno di criteri interpretativi per muoversi nel mondo. Movimento è spazializzazione del soggetto, cambiamento è temporalizzazione del soggetto. Nel movimento spaziale l’uomo percepisce anche il cambiamento dei tempi, cosi come nel cambiamento dei tempi egli immagina un movimento nascosto. A questo punto spazio e tempo esistono veramente o sono unità di senso inventate dal soggetto umano – allucinazioni le chiamerebbe Hofstadter in Anelli nell’Io, 2008 – per soddisfare le proprie esigenze cognitive e avere coscienza di sé? Attendiamo che le Scienze Cognitive chiariscano il dilemma in futuro.
Ma ne dubito!
A questo punto, tuttavia, vorrei porre una questione paradossale: se la velocità eccessiva crea disastri, l’unico modo per essere efficacemente veloci risulterebbe “il modo lento”?